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B E N V E N U T O !! Lo Spirito Santo illumini la tua mente, fortifichi la tua fede.


domenica 20 maggio 2018

Chiesa sempre aperta al mondo, senza porte e addirittura senza pareti, confini, recinti, barriere


DOMENICA 20 maggio 2018 - Pentecoste Anno B
 

dagli Atti degli Apostoli 2,1-11

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».


Mi è capitato qualche volta (secondo alcuni molte volte..eheh) di ricevere chiamate o messaggi a sera tardi se non addirittura di notte, di qualche parrocchiano che mi avvisa che ho lasciato le porte della chiesa aperte. Al mattino e durante la giornata c’è un volontario che apre e chiude, ma alla sera tocca al parroco, cioè al sottoscritto, che deve fare i conti con la sua distrazione e la difficoltà di fare tante cose insieme.


A volte mi trovo a spegnere le luci e a tirare il catenaccio del portone appena finita la messa serale, ed è capitato di dover aspettare che qualche fedele della messa o qualcuno entrato in quel momento uscisse. Chiudere la porta della chiesa dal punto di vista pratico è utile, per evitare che di notte, approfittando che non ci sono persone in giro a controllare, un malintenzionato entri e faccia qualche furto o atto di vandalismo. Le chiese, specialmente quelle antiche come la nostra, sono un bene prezioso che va salvaguardato, eppure sbarrare la porta e renderle inaccessibili ha per me un forte impatto anche simbolico che mi fa pensare. Chiudere una chiesa non solo impedisce chi sta fuori di entrare, ma anche da dentro, a meno di non aprire i catenacci, impedisce di uscire. Se la chiesa-edificio è simbolo della Chiesa-comunità dei cristiani, quando l’edificio è chiuso in quel momento è il contrario di quello che dovrebbe essere la comunità dei cristiani secondo il disegno di Dio.


Il brano del libro degli Atti degli Apostoli (libro che racconta i primi passi della Chiesa dopo la resurrezione di Gesù) che ascoltiamo in questo giorno di Pentecoste, ci racconta quello che è accaduto il giorno in cui sui discepoli chiusi dentro il cenacolo è sceso lo Spirito Santo. L’evangelista Luca (che oltre ad aver scritto il Vangelo, ha scritto anche questo racconto) ci dice subito che la prima comunità dei discepoli è radunata tutta nello stesso luogo. Poco prima aveva detto che in quel luogo con gli Apostoli si trovava anche Maria, la madre di Gesù, e altre donne e discepoli.

 Il giorno di Pentecoste (una festività ebraica di ringraziamento) la comunità riunita dentro il Cenacolo è davanti ad un bivio: rimanere chiusa in posizione di difesa e conservazione o aprirsi al rischio della testimonianza, così come Gesù prima di morire e poi anche da risorto aveva loro detto. I primi discepoli e discepole hanno chiuso le porte per difendere la loro stessa vita e anche in difesa di quel che conoscono di Gesù, con la preoccupazione e paura di vedere tutto “rubato” e disperso dalla violenza dei nemici di Gesù. Cosa fare? Come muoversi? L’evangelista ci racconta che tutto non dipende dal coraggio e dalla decisione dei discepoli, ma da un dono che viene dall’alto, da Dio. È lo Spirito Santo che smuove la scena e apre le porte della comunità stabilendo una comunicazione con il mondo, una comunicazione piena che da quel momento non si è più interrotta.


L’immagine delle lingue di fiamme che si posano su ognuno personalmente dopo essersi divise da un unico fuoco, è molto efficace nel descrivere un dono di una indescrivibile potenza. Lo Spirito Santo, che per Sant’Agostino è l’Amore tra Dio Padre e Dio Figlio (l’Amante e l’Amato), è bene descritto per me da questo fuoco, che è il fuoco dell’amore divino che accende l’amore umano, scalda il cuore, dona coraggio, illumina la strada, brucia ogni resistenza e ostacolo interiore. È da questo momento che nasce la Chiesa, così come anche noi continuamente oggi la cerchiamo di costruire. 

Ed è una Chiesa sempre aperta al mondo, senza porte e addirittura senza pareti, confini, recinti, barriere. I discepoli che parlano di Dio in tutti i modi possibili, con tutte le lingue del mondo, descrivono quello che la la Chiesa che anche oggi non smette di cercare di fare, cioè comunicare sempre più Dio ad ogni essere umano, in qualsiasi situazione umana di trovi, in qualsiasi territorio della sua vita abiti. Lo Spirito Santo, Amore di Dio nel cuore dei discepoli, scaccia la preoccupazione che qualcuno possa rubare e distruggere il Vangelo, e che quindi non serve chiudere le porte e mettere barriere per chi entra o esce. Tutti posso conoscere e hanno diritto di conoscere il Vangelo di Gesù. Tutti i cristiani con il dono del Battesimo e attraverso la preghiera della comunità, possono comunicare il Vangelo, perché raggiunto dallo Spirito di Dio.


In questo periodo la nostra comunità parrocchiale sta rinnovando il suo Consiglio Pastorale. Il Consiglio Pastorale Parrocchiale, è un organo fondamentale voluto dai vescovi per ogni parrocchia. Il Consiglio Pastorale ha il compito non facile di tenere le porte della comunità aperte, in modo che ognuno si senta protagonista della vita parrocchiale. La comunità cristiana non si manifesta solo tra le pareti della chiesa nei momenti di preghiera durante le celebrazioni, ma è fatta di tanti altri momenti e soprattutto tante persone che la fanno vivere, nelle attività di formazione e catechesi, nelle attività caritative, nella vita delle famiglie e nel dialogo con il territorio sociale. La lingua della comunità non è solo quella della preghiera, ma anche quella della vita di tutti i giorni nelle case, nei luoghi di ritrovo e di lavoro, nei luoghi di sofferenza e di impegno sociale.


Quando lo Spirito Santo scende sui discepoli nel cenacolo tutti sono coinvolti in modi diversi ma in modo assolutamente unitario per portare la testimonianza di Gesù. Ed è proprio per questo che il Consiglio Pastorale di una parrocchia deve essere il più possibile espressione di tutte le realtà che costruiscono la parrocchia. Non solo il parroco, ma anche catechisti e catechiste, volontari di ogni tipo, giovani e anziani e famiglie, sono tutti protagonisti della testimonianza del Vangelo. Il Consiglio Pastorale quindi cerca di rappresentare tutti per mantenere quello stile di unità e comunione che sono fondamentali per Gesù.


Le porte della chiesa-edificio si possono chiudere, e in certi orari la chiesa non è accessibile, ma la Chiesa-comunità di persone dal giorno di Pentecoste di 2000 anni fa, invece ha le porte sempre spalancate.


Maria, la madre di Gesù, che secondo la tradizione era presente quel giorno del dono dello Spirito, sicuramente ha aiutato gli apostoli con la sua testimonianza a non avere paura di questo compito di parlare di Dio e uscire verso il mondo. Lei ha ricevuto per prima il dono speciale dello Spirito che l’ha fatta diventare madre di Cristo. Ora anche a noi, Maria, ci aiuta a pronunciare il nostro “eccomi sono la serva del Signore”, in modo da non spegnere la fiamma d’amore che Dio ci ha messo dentro, ma al contrario ravvivarla insieme per noi stessi, per la nostra parrocchia e per il mondo.

Giovanni don Giova

Il commento al vangelo di Enzo Bianchi della comunità di Bose potete trovarlo sul blog
enzo-sceltadivita.blogspot.it

sabato 12 maggio 2018

LA missione della Chiesa è quella di mostrare nell’unità che Gesù non è sparito tra le nuvole


ASCENSIONE DEL SIGNORE

13 MAGGIO ANNO B - 2018

dal Vangelo di Marco 16,15-20
   

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. 
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

Commento di don Giovanni Berti ( GIOBA)
 
Qualche giorno fa sono stato al cinema a vedere l’ultimo film della serie dei supereroi della Marvel, “Avengers, infinity war”. E’ davvero un super film, che sta avendo anche parecchio successo, e che mette insieme tutti o quasi i supereroi dai poteri incredibili che appaiono nei fumetti prima e poi nei vari film che sono stati prodotti negli anni passati. Ironman, Capitan America, dottor Strange, Spiderman, i Guardiani della Galassia, Hulk, Thor e tanti altri si trovano a combattere insieme contro un super cattivo, Thanos, che minaccia di sterminare gli abitanti di mezzo universo, Terra compresa.


Ognuno dei personaggi mette in campo i propri poteri in una lotta che come dice il titolo stesso del film, è infinita non solo cronologicamente ma anche perché coinvolge l’universo intero. Quello che lega personaggi così diversi non è una tranquilla sintonia di carattere e di provenienza, ma il comune scopo di salvare l’universo. Nel racconto emerge infatti chiaramente come sono davvero molto diversi e corrono continuamente il rischio di scontrarsi tra loro stessi, di non capirsi nelle mosse da fare, e di cadere in gelosie e incomprensioni. Spesso è proprio la loro profonda differenza che li porta a rallentare e fallire anche nelle battaglie decisive contro il male. Pian piano però comprendono che solo unendosi insieme in un comune amore per gli esseri umani e per tutti gli esseri viventi, potranno davvero fare qualcosa per l’universo.

Gesù nel Vangelo sta per iniziare una fase nuova della sua azione nel mondo. È la fase nella quale lui non sarà più visibile e operante come lo è stato negli ultimi anni e subito dopo la resurrezione. Gesù, il risorto, ora “sale” in cielo, cioè torna nella dimensione divina che è differente da quella umana. Nella dimensione concreta e storica degli uomini rimangono i suoi discepoli (quelli di allora e noi oggi). Sono proprio i discepoli con le loro profonde differenze (come lo sono tutti gli esseri umani tra di loro) a dover affrontare le sfide della testimonianza del Vangelo nel mondo e nella storia. Sono loro che sono chiamati a portare con le parole e con i gesti, la presenza di Gesù nella realtà degli uomini. Non è un compito facile e richiede davvero un “superpotere” speciale per affrontare il male, le diversità culturali e linguistiche, i veleni spirituali che spesso inquinano i rapporti tra le persone, le difficoltà della vita fisica e anche la morte, che rimane sempre all’orizzonte di ogni esperienza umana.

Ai discepoli è dato il super potere comune dello Spirito Santo, dell’Amore totale di Dio che permette loro di affrontare la testimonianza con successo, e cambiare così pian piano il mondo perché non sia distrutto dall’odio, dal male, da tutto ciò che nega l’amore, cioè Dio stesso.

Come gli Avengeres contro Thanos nei fumetti e nei film, anche noi discepoli nella storia vera, fuori dalle pagine disegnate o dallo schermo del cinema, siamo chiamati ad unirci veramente, non permettendo che le normali diversità che sperimentiamo ci dividano e ci portino a scontrarci tra di noi.

Papa Francesco, parlando nei giorni scorsi a Loppiano davanti a coloro che si riconoscono nell’esperienza dei focolarini di Chiara Lubich, ha parlato di unità tra gli uomini che è possibile e necessaria e che non significa uniformità: «Cultura dell’unità, non dell’uniformità, che è il contrario dell’unità»

E’ proprio vero che il cristiano crede profondamente che in Cristo, anche provenendo da luoghi, tradizioni, esperienze diverse, è possibile unirsi nell’amore.
La missione della Chiesa è dunque quella di mostrare nell’unità che Gesù non è sparito tra le nuvole, ma continua ad essere presente in modo nuovo in noi, e attraverso le nostre mani, le nostre parole, le nostre azioni, i nostri progetti, continua ad operare nel mondo per salvarlo e renderlo luogo di resurrezione e di vita.

L’amore è davvero un superpotere potentissimo, nell’infinita lotta per la salvezza dell’universo.

venerdì 4 maggio 2018

Il comandamento nuovo

 

                            VI domenica di Pasqua – Anno B- 2018

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”





Dal vangelo di Giovanni 15,9-17

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio a more. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.»


Commento di Enzo Bianchi, monastero di Bose

Nei “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), attraverso i quali Giovanni ci svela le parole del Signore risorto alla sua comunità, per due volte viene annunciato il “comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
Sono parole certamente consegnate ai discepoli, ai discepoli di Gesù che in ogni tempo lo seguono, ma questo comandamento non è limitante, non è riduttivo delle parole sull’amore comandato da Gesù addirittura verso i nemici e i persecutori (cf. Mt 5,44; Lc 6,27-28.35). L’amore è sempre amore di chi dà la vita per i propri amici, è sempre amore che ha avuto la sua epifania sulla croce, dunque amore di Dio per il mondo, per tutta l’umanità (cf. Gv 3,16). Questo amore è innanzitutto ciò che Dio è, perché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16); è ciò che è vita del Padre e del Figlio nella comunione dello Spirito santo; è amore che Gesù di Nazaret ha vissuto fino alla fine, fino all’estremo (eis télos: Gv 13,1). L’amore, dunque, ha origine in Dio e da Dio discende, creando una relazione dinamica nella quale ogni persona è chiamata ad accogliere il dono dell’amore, a lasciarsi amare per poter diventare soggetto di amore.

Per noi l’abisso di amore estatico che è Dio stesso è incommensurabile, e riusciamo solo a leggerlo guardando alla vita e alla morte di Gesù, che avendo spiegato Dio (exeghésato: Gv 1,18), ci ha narrato il suo amore. Con tutta l’autorevolezza di chi ha vissuto l’amore fino all’estremo, Gesù ha potuto dire: “Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi”. Ancora una volta queste parole di Gesù ci dovrebbero scandalizzare, perché appaiono come una pretesa: Gesù pretende di aver amato i suoi discepoli come Dio sa amare e di questo amore di Dio dice di avere conoscenza, di averne fatto esperienza.
Come può un uomo dire questo? Eppure il Kýrios risorto lo afferma e lo dice a noi che lo ascoltiamo. In questi nove versetti per nove volte risuona la parola “amore/amare” e per tre volte la parola “amici”: questo amore discende da Dio Padre sul Figlio, dal Figlio sui discepoli suoi amici e dai discepoli sugli altri uomini e donne. È un amore che si incarna e si dilata per poter raggiungere tutti. È quasi impossibile seguire adeguatamente il discorso di Gesù; possiamo però almeno segnalare che in lui l’amore di Dio è diventato amore dei discepoli, i quali possono rispondere a questo amore discendente, donato a loro gratuitamente, dimorando in tale amore, ossia restando saldi nel realizzare la volontà di Gesù, ciò che egli ha comandato.


 
E questa volontà consiste, in estrema sintesi, nell’amare l’altro, ogni altro. Riusciamo a capire cosa Gesù ci chiede nel farci dono del suo amore? Non ci chiede innanzitutto che amiamo lui, che ricambiamo il suo amore, amandolo a nostra volta. No, la risposta al suo amore è l’amare gli altri come lui ci ha amati e li ha amati. La restituzione dell’amore, il contro-dono, che è la legge dell’amore umano, deve essere amore rivolto verso gli altri. Allora questo amore fraterno è compiere la volontà di Dio, dunque amarlo in modo vero, come Dio desidera essere amato. Gesù ha risposto all’amore del Padre amando noi, e noi rispondiamo all’amore di Gesù amando l’altro, gli altri. Per questo tutta la Legge, tutti i comandamenti sono ridotti a uno solo, l’ultimo e il definitivo, che relativizza tutti gli altri: l’amore del prossimo. Lo ha detto Gesù: “Dai comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo”, cioè dell’amore dell’altro vissuto come Dio vuole e come Gesù ha testimoniato, “dipendono tutta la Legge e i Profeti” (cf. Mt 22,40). E Paolo lo ha ulteriormente ribadito: “Tutta la Legge nella sua pienezza è riassunta nell’unica parola: ‘Amerai!’” (cf. Gal 5,14; cf. anche Rm 13,8-10).


Gesù ci consegna dunque un criterio oggettivo per valutare il nostro rapporto di discepoli con lui e con il Padre: l’amore fattivo, concreto verso gli altri. Solo mettendoci a servizio degli altri, solo facendo il bene agli altri, solo spendendo la vita per gli altri, noi possiamo sapere di dimorare, di restare nell’amore di Gesù, come egli sa di restare nell’amore del Padre. Senza questo amore fattivo non c’è possibilità di una relazione con Gesù e neppure con il Padre, ma c’è solo l’illusione religiosa di una relazione immaginaria e falsa con un idolo da noi forgiato e quindi amato e venerato.

In questa pagina del quarto vangelo Gesù ha anche l’audacia di reinterpretare il rapporto tra Dio e il credente tracciato da tutte le Scritture prima di lui. Il credente è certamente un servo (termine che indica un rapporto di sottomissione e di obbedienza) del Signore, ma Gesù dice ai suoi che ormai non sono più servi, bensì sono da lui resi amici: “Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici (phíloi), perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Intimità più profonda di quell’amicizia di Abramo (cf. Gc 2,23) o di Mosè (cf. Es 33,11) con Dio; intimità che è comunione di vita, comunione di amore.

Il discepolo di Gesù, che fa innanzitutto l’esperienza di essere amato dal Signore, può diventare a sua volta un amante del Signore: non è semplicemente qualcuno chiamato a essere servo per svolgere un’azione, ma è un amico che entra in relazione con il Signore. Egli riconosce che non vi è amore più grande che dare la vita per gli amici, e in tale amore concreto è reso partecipe della parola, dell’intimità, della rivelazione del Signore. Il discepolo di Gesù è stato da lui scelto, l’amore di Cristo lo ha preceduto e il frutto che Cristo attende è l’amore per gli altri. Questo sarà anche l’unico segno di riconoscimento del discepolo cristiano nel mondo (cf. Gv 13,35): null’altro, anzi il resto offusca l’identità del cristiano e non permette di vederla.


 Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che ci basti nutrire un amore di desiderio o di attesa per Dio: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù. L’amore presente nel desiderio di Dio può essere una grande illusione, e Giovanni lo ribadisce con forza: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). 
Ecco, noi cristiani, comunità del Signore nel mondo e tra gli uomini, dobbiamo avere la consapevolezza di essere originati dalla carità, dall’amore di Dio. Ecclesia ex caritate: la chiesa nasce dalla carità di Dio e solo se dimora in tale carità può anche essere chiesa che opera la carità, sapendo che l’amore non può mai essere disgiunto dall’obbedienza al Signore. Infatti è il “comandamento”che sa indirizzare plasmare il nostro amore in conformità all’amore di Cristo, che ci spinge addirittura ad amare il non amabile, a operare la carità verso il nemico o verso chi ha commesso il male nei nostri confronti.

In questo dono da parte di Gesù del comandamento nuovo, del suo comandamento per eccellenza, c’è la costituzione della sua comunità, della chiesa. Questa deve essere una casa dell’amicizia, un’esperienza di amicizia; i cristiani restano certamente servi del Signore, nell’obbedienza, ma sono amici del Signore nella condivisione della sua vita più intima, nella conoscenza di ciò che il Padre comunica al Figlio e di ciò che il Figlio dice al Padre in quella comunione di vita e di amore che è lo Spirito santo. Sì, il comandamento nuovo non ci viene dato come una legge ma come un dono che ci fa partecipare alla vita di Dio stesso. C’è qui il grande mistero cristiano della grazia, dell’amore gratuito e preveniente, dell’amore che non si deve mai meritare ma che va solo accolto con stupore e riconoscenza. Si legge in un detto apocrifo attribuito a Gesù: “Hai visto il tuo fratello? Hai visto Dio!”. Parole che possono anche essere comprese come segue: “Hai amato il tuo fratello? Hai amato Dio!”.











sabato 28 aprile 2018

Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto


                                                                   
GESU'   VITA  VERA





Quinta domenica di Pasqua – Anno B – 2018
 



dal Vangelo di Giovanni 15,1-8
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:1 «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.»


Commento di Enzo Bianchi, monastero di Bose


Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero…
I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore!

La pagina odierna è tratta dai cosiddetti “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole che il Risorto glorioso e vivente rivolge alla sua chiesa. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15); è la pianta coltivata da sempre nella terra di Palestina, simbolo di una vita sedentaria e di una cultura attestata, simbolo della vita abbondante e gioiosa. Proprio la vite era stata assunta dai profeti come immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata nella terra promessa da Dio stesso (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4).
 
Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato quale vite vera (alethiné)” (Ger 2,21 LXX) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare in sé tutto il suo popolo, proprietà del Signore. Egli è la vite vera e Dio – chiamato da Gesù con audacia “Padre” – è il vignaiolo, colui che la coltiva.
Nella loro predicazione i profeti si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata e desolata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi fallimenti, le sue cadute e le sue sofferenze. Egli è nel contempo il testimone dell’amore fedele di Dio che, nella sua misericordia inesauribile, rinnova l’alleanza con il suo popolo.


Gesù è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra, è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una e una sola linfa la fa vivere! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra e coltivandola ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta. Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa non disperdere la linfa e così produrre non fogliame, non tralci frondosi ma senza frutto: una vite deve dare grappoli formati e grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati fuori della vigna, si seccano e sono destinati al fuoco…


Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vite che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite per i tralci tagliati e staccati da lui. È la stessa parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)? Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro.
Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita. Rimanere non è semplicemente permanere ciò che si è, in una passività paralizzante, ma è una dinamica attraverso la quale il legame con Gesù nell’adesione a lui (la fede) e nell’amore per lui (la carità) cresce e si sviluppa come comunione perseverante e fedele. 
 
Nel rimanere in Gesù c’è la sequela come dimensione interiorizzata, come condivisione di vita con lui, il vivere insieme! Proprio questo rimanere in Gesù è condizione necessaria e assoluta per essere in comunione con il Padre, con Dio. Come Gesù aveva dichiarato: “Il Figlio non può fare nulla da se stesso, se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19; cf. anche 5,30), così anche il suo discepolo non può fare nulla senza di lui: “Senza di me non potete fare nulla”. Ma come tralcio che riceve da lui la vita, può produrre molto frutto. Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, se si nutre della sua linfa vitale, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante!
 In questa parola di Gesù ci viene inoltre ricordato che non spetta a nessuno potare, e dunque separare, staccare i tralci, se non a Dio, perché solo lui lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda, purifica (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona; la Parola che è la linfa della vite.

Assistiamo sovente a potature nella comunità del Signore, conosciamo queste ore dolorose nelle quali possiamo dire che avviene una separazione e alcuni tralci non permangono più attaccati alla vite ma, staccati da essa, finiscono per seccare e non far più parte della vigna feconda e viva. Quando ciò avviene? Quando dei credenti in Cristo, innestati nella vite tramite il battesimo, non credono più all’amore (cf. 1Gv 4,16) e scelgono di vivere non nell’amore ma nell’inimicizia, nella philautía, nell’idolatria di se stessi. Questo succede quando ci si separa dalla comunità dei credenti, non riconoscendo più chi appartiene al corpo di Cristo; succede quando non si coglie più il dono dell’ospitalità eucaristica di Gesù che ci offre il suo corpo e il suo sangue affinché la sua vita sia in noi. Gesù, del resto, lo aveva detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56).
Al termine della lettura di questa auto-proclamazione di Gesù – “Io sono la vite vera” – non resta che confermare la nostra fede in lui, vivendo insieme a lui un’unica vita e accettando per grazia, senza volontarismo, di dare in lui frutti abbondanti. La linfa della vite che siamo con Cristo è lo Spirito santo e il corpo e il sangue di Cristo nell’eucaristia ci donano questa linfa per la vita eterna.




sabato 21 aprile 2018

Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare.

Gesù, il pastore santo, bello e buono

IV domenica di Pasqua – ANN0 B 2018



Gv 10,11-18

In quel tempoGesù disse ai suoi discepoli:« 11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.  14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».




Commento di ENZO BIANCHI, monastero di Bose


Nei brani evangelici che la chiesa (dopo quelli delle manifestazioni del Risorto) ci propone per il tempo pasquale, sempre tratti dal quarto vangelo, è il Gesù Cristo risorto che parla alla sua comunità, rivelando la sua identità più profonda, identità che viene da Dio suo Padre. Il Signore vivente per sempre è più che mai autorizzato a presentarsi con il Nome stesso di Dio: “Io sono” (Egó eimi). Quando Mosè aveva chiesto a Dio che gli parlava dal roveto ardente di rivelargli il suo Nome, Dio aveva risposto: “Io sono” (Es 3,14), Nome ineffabile, nome indicibile inscritto nel tetragramma JHWH.

Il Cristo vivente si rivela dunque come “Io sono”, e specifica: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite” (Gv 15,5). Nel nostro brano, dopo essersi presentato come la porta dell’ovile, Gesù dichiara per due volte: “Io sono il pastore buono e bello” (kalós), riassumendo in sé l’immagine di tutti i pastori donati da Dio al suo popolo (Mosè, David, i profeti), ma anche l’immagine di Dio stesso, invocato e lodato come “Pastore di Israele” (Sal 80,2), dei credenti in lui.

Gesù aveva evocato più volte l’immagine del pastore e del gregge da lui pascolato (cf. Mt 9,36; 10,6; 15,24, ecc.), ma ora con questa rivelazione parla di se stesso, si proclama Messia e Inviato da Dio per condurre l’umanità alla vita piena, “venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Il buon pastore è l’opposto del pastore salariato, che fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli appartengono, non sono destinatarie del suo amore e non contano nulla per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le pecore a lui affidate! Chi è il pastore mercenario o salariato? È un funzionario, è colui che svolge il compito per il salario che riceve o semplicemente perché l’essere pastore è ritenuto un onore che gli provoca riconoscimento e gli dona anche gloria. Ma lo si deve dire: il pastore salariato è facilmente riconoscibile nel quotidiano, perché sta lontano dalle pecore e non le ama. A lui basta governarle!

Al contrario, l’amore del buon pastore per le sue pecore causa addirittura il suo esporre, il suo deporre la vita per la loro salvezza. Non solo egli spende la vita stando in mezzo alle pecore, guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. È questo il momento in cui il buon pastore si rivela. Questa solidarietà, questo amore sono però possibili solo se il pastore non solo non è un salariato, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza particolare che lo porta a discernere e a riconoscere l’identità di ciascuna di esse: una conoscenza penetrativa che è generata dalla prossimità, dall’assidua custodia del gregge.

Sì, la prima qualità del pastore autentico è la vicinanza alle pecore: sta con loro notte e giorno, nei deserti e nei prati, sotto il sole e sotto la pioggia. Papa Francesco ha parlato di “prossimità della cucina”, cioè dello stare là dove “si cucinano” le cose decisive, quelle che contano per ogni pecora, per ogni gregge; ha parlato di pastore che deve avere addosso “l’odore delle pecore”. Immagini forti, che indicano l’urgenza che i pastori non stiano al di sopra né ai margini, ma “in mezzo”, in piena solidarietà con le pecore.

Gesù cerca di spiegare questa comunione reciproca evocando addirittura la conoscenza tra sé e il Padre, che lo ha inviato e del quale cerca di realizzare giorno dopo giorno la volontà: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Vi è in queste parole di Gesù l’essenza della cura pastorale: una reciproca conoscenza penetrativa tra pastore e pecore. Non solo il pastore conosce le pecore una per una, in una relazione personale e in un vincolo d’amore, ma anche le pecore conoscono il pastore, la sua vita, il suo comportamento, i suoi sentimenti, le sue ansie e le sue gioie, perché il pastore è loro vicino, prossimo. Le pecore non conoscono solo la voce del pastore che ascoltano quando le richiama, ma conoscono anche la sua presenza, a volte silenziosa, ma che sempre dà loro sicurezza e pace.

Tale conoscenza-comunione è certamente quella vissuta da Gesù nei suoi giorni terreni, all’interno della sua comunità, con i suoi discepoli e le sue discepole; ma è anche una comunione che trascende i tempi, in quanto sarà vissuta nella storia tra il Risorto e quanti egli attirerà a sé, chiamandoli da altri ovili. Venuto per tutti, non solo per Israele, e volendo portare tutti alla pienezza della vita, Gesù è consumato dal desiderio che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore e che tutti i figli di Dio dispersi siano radunati (cf. Gv 11,52). Proprio nell’evento della croce si manifesterà la gloria di Gesù come gloria di chi ha amato fino alla morte e allora, innalzato da terra, egli attirerà tutti a sé (cf. Gv 12,32) e darà inizio al raduno delle genti attorno a sé, fino al compimento escatologico, quando “l’Agnello sarà il loro pastore” (Ap 7,17). Gesù non è un pastore come i pastori di Israele, ma proprio perché è “la luce del mondo” (Gv 8,12) e “il Salvatore del mondo” (Gv 4,42) – avendo Dio amato il mondo (cf. Gv 3,16) –, egli è anche il pastore di tutta l’umanità, come Dio è stato confessato e testimoniato.

Dopo questa auto-rivelazione, ecco altre parole con cui Gesù esprime la sua intimità, la sua comunione con Dio: “Per questo il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita, per riceverla di nuovo”. Perché il Padre ama Gesù? Perché Gesù realizza la sua volontà, quella volontà che è amore fino al dono della vita. In Gesù c’è questo amore “fino all’estremo” (eis télos: Gv 13,1), fino al dono della vita appunto, e c’è la fede di poterla riceverla di nuovo dal Padre. Si faccia qui attenzione alla traduzione, che può compromettere il senso delle parole di Gesù. Gesù non dice: “Il Padre mi ama perché offro la mia vita per riprenderla di nuovo”, ma “per riceverla di nuovo” (il verbo lambáno nel quarto vangelo significa sempre “ricevere” non “riprendere”). L’offrire la vita da parte di Gesù sta nello spazio della fede, non dell’assicurazione anticipata! Il comando del Padre è che lui spenda, offra la vita; e la promessa del Padre è che così potrà riceverla, perché “chi perde la sua vita la ritroverà, ma chi vuole salvarla la perderà” (cf. Mc 8,35 e par.; Gv 12,25). Nessuno prende la vita a Gesù, nessuno gliela ruba, e la sua morte non è né un destino (una necessità) né un caso (gli è andata male…): no, il suo è un dono fatto nella libertà e per amore, un dono di cui egli è stato consapevole lungo tutta la sua vita, dicendo ogni giorno il suo “sì” all’amore.

Nelle parole di Gesù, il Padre appare come l’origine e la fine di tutta la sua attività: da lui viene il comando, che è nient’altro che comando di amare, vissuto da Gesù nel suo discendere quale Parola fatta carne (cf. Gv 1,14) e nella sua vita umana nel mondo. E la morte di Gesù non è solo il termine dell’esodo da questo mondo, ma è un atto compiuto (“È compiuto!”: Gv 19,30), il termine ultimo del suo vivere l’amore all’estremo. Gesù dà la sua vita fino a morire, ma non con il desiderio di recuperare la vita come premio, di riprenderla come un tesoro che gli spetta o come un merito per l’offerta di sé, bensì nella consapevolezza che il Padre gliela dona e che lui l’accoglierà perché “l’amore basta all’amore” (Bernardo di Clairvaux). Gesù non ha dato la sua vita per ragioni religiose, sacre, misteriche, ma perché quando si ama si è capaci di dare per gli amati tutto se stessi, tutto ciò che si è.

Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo, un certo Abercio, si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”. Sì, Gesù è il pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e guidati.



sabato 14 aprile 2018

Se crediamo di non avere una fede forte torniamo a leggere questo brano




Luca annota che i discepoli “sconvolti e pieni di paura, credono di vedere uno spirito”


TERZA DOMENICA DI PASQUA - Anno B - 2018


Dal Vangelo Lc 24,35-48

35In quel tempo i due discepoli tornati da Emmaus narravano ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto Gesù nello spezzare il pane. 36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 37Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
44Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni.


Commento di Enzo Bianchi

Il vangelo di questa domenica racconta un altro evento, dopo la visita all’alba delle donne alla tomba vuota, la corsa di Pietro al sepolcro , la manifestazione del Risorto “come un forestiero” ( ai due discepoli in cammino verso Emmaus.
Sempre nel medesimo giorno, “il primo della settimana” (Lc 24,1), il giorno unico della resurrezione, ma alla sera, i due discepoli tornati a Gerusalemme sono nella camera alta (cf. Lc 22,12; Mc 14,15), a raccontare agli Undici e agli altri “come hanno riconosciuto Gesù nello spezzare il pane” (cf. Lc 24,25). Ed ecco che, improvvisamente, si accorgono che Gesù è in mezzo a loro e fa udire la sua parola: “Pace a voi!”. Non consegna loro parole di rimprovero per la loro fuga al momento del suo arresto, non redarguisce Pietro per il rinnegamento, non dice nulla sul fatto che essi non sono più Dodici, come li aveva chiamati e costituiti in comunità (cf. Lc 6,13; 9,1), ma solo Undici, perché il traditore se n’è andato. No, dice loro: “Shalom ‘aleikhem! Pace a voi!”, saluto abituale per i giudei, ma che quella sera risuona con una forza particolare. Questo saluto, rivolto ai discepoli profondamente scossi e turbati dagli eventi della passione e morte di Gesù, significa innanzitutto: “Non abbiate paura!”.



La resurrezione ha radicalmente trasformato Gesù, l’ha trasfigurato, reso “altro” nell’aspetto, perché egli ormai “è entrato nella sua gloria” (cf. Lc 24,26), e può solo essere riconosciuto dai discepoli attraverso un atto di fede. Quest’atto di fede è difficile, faticoso: gli Undici stentano a viverlo, a metterlo in pratica… Non a caso Luca annota che i discepoli “sconvolti e pieni di paura, credono di vedere uno spirito”, allo stesso modo con cui i discepoli sul cammino di Emmaus credevano di vedere un pellegrino.



Allora Gesù li interroga: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che io ho”.



Nel dire questo, mostra loro le mani e i piedi con i segni della crocifissione. Sì, il Risorto non è altro che colui che è stato crocifisso! Questa ostensione da parte di Gesù delle sue mani e dei suoi piedi trafitti per la crocifissione è un gesto che chiede ai suoi discepoli di incontrarlo innanzitutto nei segni della sofferenza, del patire e del morire. La carne piagata di Cristo è la carne piagata dell’umanità, è la carne del povero, dell’affamato, del malato, dell’oppresso, della vittima dell’ingiustizia della violenza! Senza questo incontro realissimo con la carne dei sofferenti, non si incontra Cristo, e la stessa resurrezione resta un mito.
Eppure, nonostante queste parole e questo gesto, i discepoli non arrivano a credere, malgrado un’emozione gioiosa non giungono alla fede. È vero, noi esseri umani approdiamo facilmente alla religione, ma difficilmente arriviamo alla fede; viviamo facilmente emozioni “sacre” o religiose, ma difficilmente aderiamo a Gesù Cristo e alla sua parola. 

 
Nella comunità degli Undici dobbiamo leggere la vicenda delle nostre comunità, nelle quali si vive la fede e la si confessa, ma si manifesta anche l’incredulità. Eppure il Risorto ha grande pazienza, per questo offre alla sua comunità una seconda parola e un secondo gesto. Chiede loro se hanno qualcosa da mangiare, ed essi gli offrono del pesce arrostito, il cibo che abitualmente mangiavano insieme, quando vivevano l’avventura della vita comune in Galilea. Ricevutolo, Gesù lo mangia davanti a loro!
Noi siamo persino stupiti di fronte a questi gesti di Gesù, ma stiamo attenti: sono solo “segni” per dire che la resurrezione di Gesù non è immortalità dell’anima e perdita totale del corpo, non è “la continuazione della sua causa” anche se egli è morto, non è una memoria che si conserva senza che colui che è morto sia veramente vivente.
Gesù dà ai discepoli questi segni, che in verità contengono verità indicibili, affinché credano che il Crocifisso ha vinto realmente la morte. Il suo corpo crocifisso è un corpo ora vivente, “un corpo spirituale” (1Cor 15,44), cioè vivente nello Spirito, dirà l’Apostolo Paolo.


Luca stesso scriverà all’inizio degli Atti degli apostoli che Gesù “si presentò vivente ai suoi discepoli con molte prove” (At 1,3), che non sembravano però sufficienti per condurli alla fede. Infatti i discepoli restano in silenzio, muti! Allora Gesù, per renderli finalmente credenti, riprende la sua predicazione, l’annuncio del Vangelo da lui fatto fino alla morte.
Chiede di ricordare le parole dette mentre era con loro, perché quelle parole erano profezia e parola di Dio che si doveva avverare, così come doveva trovare compimento tutto ciò che era stato scritto su di lui, il Messia, nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi, cioè nelle sante Scritture dell’antica alleanza. Ed ecco che, mentre il Risorto ricorda e spiega la parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, opera il vero miracolo: “aprì loro la mente per comprendere le Scritture”.


Il verbo qui utilizzato (dianoígo) nei vangeli ha sempre un senso terapeutico: designa l’apertura degli orecchi dei sordi e della bocca dei muti (cf. Mc 7,34), degli occhi ai ciechi (cf. Lc 24,31). Qui indica l’operazione compiuta nella potenza dello Spirito santo, l’apertura della mente alla comprensione delle Scritture.
I discepoli, così “aperti”, possono ora credere e quindi essere costituiti testimoni della resurrezione di Gesù. Gesù si fa insieme a loro esegeta, interprete delle profezie che lo riguardavano, ricorda anche le sue parole consegnate durante la predicazione in Galilea, mostrando la necessità del compimento, della realizzazione nella sua vita nella sua morte.
Non aveva forse conversato con Mosè (la Legge) e con Elia (i profeti) proprio su quell’esodo pasquale che doveva compiere a Gerusalemme (cf. Lc 9,30-31)? 

 
La fede pasquale scaturisce dalla fede e dalla conoscenza delle sante Scritture, come ancora professiamo nel Credo: “Morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture (cf. 1Cor 15,3-4)” (resurrexit tertia die secundum Scripturas). I discepoli hanno capito che il disegno salvifico di Dio si è compiuto nella passione, morte e resurrezione del Signore, e che questo è il fondamento della fede cristiana, dal quale scaturisce l’annuncio del perdono dei peccati, della misericordia di Dio per tutte le genti della terra: non solo per il popolo di Israele, ma per tutti…
Con tanta fatica Gesù ha reso nuovamente credenti quei discepoli che erano venuti meno durante la sua passione, li ha resi testimoni della sua morte e resurrezione, li ha resi capaci di comprendere cosa sia il perdono dei peccati che essi devono annunciare, in virtù del loro essere stati i primi a ricevere il perdono dal Risorto. 
 
C’è un detto di un padre del deserto che mi sembra commentare mirabilmente questa pagina evangelica: “Credere alla parola del Signore è molto più difficile che credere ai miracoli. Ciò che si vede solo con gli occhi del corpo, abbaglia; ciò che si vede con gli occhi della mente che crede, illumina”.

sabato 7 aprile 2018

Le ferite di Gesù risorto sono segno di guarigione e di vita per sempre

8 Aprile 2018 Domenica in albis – Anno B

Risorto vivente per sempre!


Gv 20,19-31

19La sera del primo giorno della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». 28Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.




Commento di ENZO BIANCHI, monastero di Bose


Siamo nell’ultimo capitolo del vangelo scritto dal discepolo amato, dove ci è data la testimonianza della resurrezione di Gesù da parte di Maria di Magdala, del discepolo amato stesso e degli altri discepoli, tra i quali Tommaso (il capitolo 21 è stato aggiunto dalla comunità del discepolo amato, tant’è vero che i vv. 30-31 del capitolo 20 costituiscono la conclusione del vangelo).
Sempre in quel “primo giorno della settimana”, il giorno della resurrezione e dunque il giorno del Signore (Dominus, da cui dies dominicus, domenica), alla sera i discepoli di Gesù sono ancora nella paura, chiusi in casa, nonostante Maria di Magdala abbia annunciato loro: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). Dov’erano i discepoli? In quale casa?

 Non ci viene detto, ma l’evangelista sembra suggerirci che dove sono i discepoli, là viene Gesù. Così il lettore comprende che ogni primo giorno della settimana, nel luogo in cui lui si trova con altri cristiani, là viene Gesù risorto e vivente.

In quel giorno della resurrezione Gesù ha inaugurato un altro modo di presenza: sta in mezzo ai suoi non più come prima, uomo tra gli uomini, ma come Risorto vivente per sempre. È sempre lui, Gesù, il figlio di Maria, l’inviato da Dio nel mondo, ma ormai non più in una carne mortale, bensì in una vita eterna nello Spirito di Dio. Questa nuova presenza è più forte e più potente della presenza fisica, perché vince ogni porta chiusa e ogni muro, e diventa credibile, sperimentata, vissuta nel quadro di una vita fraterna, di una vita di comunione: la chiesa.

Gesù, dunque, venuto tra i suoi nella posizione centrale (“stette in mezzo a loro”) di chi presiede l’assemblea, saluta i suoi con la benedizione messianica: “La pace sia con voi!”, e nel consegnare la pace mostra loro il suo corpo piagato, le mani che portano i segni della crocifissione (cf. Gv 19,17) e il costato che aveva ricevuto il colpo di lancia (cf. Gv 19,34). Gesù è vivente, è risorto da morte, ma non cessa di essere il Crocifisso: quella morte, destino di ogni uomo ma anche morte violenta data a Gesù dall’ingiustizia di questo mondo, è stata da lui vissuta e assunta, fa parte della sua umanità ormai trasfigurata in Dio ma sempre presente, non cancellata né dimenticata. Sì, Gesù risorto è vita eterna, divina, ma anche vita umana trasfigurata, sicché ormai non è più possibile pensare a Dio, dire Dio, senza pensare anche all’uomo.

A questa percezione i discepoli gioiscono, realizzando le parole dette loro da Gesù prima della passione: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete … Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete … Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 14,19; 16,16.22). Gesù allora quale Risorto alita, soffia su quella comunità, gioiosa perché credente in lui, e li fa tutti inviati, apostoli. Inviati per cosa? 
 
Nel quarto vangelo questi discepoli resi apostoli sono inviati per dare agli uomini la possibilità di sperimentare la salvezza nella remissione dei peccati: rimettere i peccati, rimettere i debiti, perdonare, questo è il mandato missionario. Nient’altro, nient’altro! Perché questo è ciò di cui gli uomini hanno bisogno: il perdono, la remissione dei peccati, la cancellazione dei peccati da parte di Dio e da parte degli uomini loro fratelli.

A questa esperienza della presenza del Risorto da parte dei discepoli Giovanni aggiunge l’esperienza di uno dei Dodici: Tommaso, quel discepolo che aveva detto di voler andare a Gerusalemme per morire con Gesù (cf. Gv 11,16), ma che poi in realtà era fuggito come tutti gli altri. Tommaso non vuole credere, sulla parola dei suoi fratelli, alla presenza di Gesù risorto e vivente, ma otto giorni dopo, quando la comunità è nuovamente radunata nel primo giorno della settimana, egli è presente
.
Ed ecco che, di nuovo, viene Gesù, sta in mezzo e dà la pace ai discepoli; poi si rivolge a Tommaso mostrandogli le mani bucate e il costato trafitto, i segni della passione in un corpo trasfigurato. Tommaso allora non può fare altro che invocare: “Mio Signore e mio Dio!”, pronunciando la confessione di fede più alta di tutto il quarto vangelo. Quel Risorto è Kýrios e Dio per la chiesa! Questo occorre credere senza aver visto nulla, ma accogliendo l’annuncio della comunità del Signore e il dono di Dio che rivela la vera identità di Gesù risorto per sempre. Per Tommaso toccare il corpo di Gesù è ormai diventato inutile, ed egli non lo fa, perché la contemplazione e l’incontro con i segni della passione trasfigurati gli bastano.

Ma l’operazione più difficile, per Tommaso come per noi, sta proprio nel vedere nei corpi piagati la potenza di una trasfigurazione che fa delle piaghe delle cicatrici luminose e piene di senso: non più segno di morte o di peccato, ma segno di guarigione e di vita per sempre.